testi

 S I M O N A S T I V A L E T T A   /   H O M E   |   P I T T U R A   |   G R A F I C A   |   T E S T I   |   L I N K S

.

Simona Stivaletta: Mediare il futuro  (english version)
Anthony Molino
 
Più o meno un anno fa, quando per la prima volta mi sono avvicinato all’opera di Simona Stivaletta, l’ho frettolosamente descritta come “ingannevolmente naïf”. Ora mi rendo conto di aver intuito più, forse, di quanto avessi potuto immaginare. Perché la sua “ingannevolezza”, ad una ricerca profonda e sistematica, si rivela di più ampia portata. E l’apparente qualità “naïf” della sua pittura risulta pervasa, in ultima analisi, da un elemento di “familiare inquietudine”: da una capacità intrigante di mescolare disparate tradizioni pittoriche, provenienti da altri tempi e luoghi, per arrivare a produrre un’espressione squisitamente contemporanea di ciò che lo psicoanalista Christopher Bollas definisce il conosciuto non pensato. Stivaletta è davvero, oserei dire, un’espressione del nostro conosciuto-non-pensato: un lento ribollire di elementi di un inconscio iconografico quasi senza tempo che ci accomuna tutti, il cui esito – precisamente nella sua dimensione di “familiare inquietudine” – porta la discreta ma inconfondibile firma di una innovativa e creativa forza contemporanea.

«Nessuno crea mai niente di nuovo. Nulla si crea dal niente». Simona mi disse queste parole durante una visita, lo scorso anno, alla Tate Britain di Londra, dove insieme ci siamo imbattuti nell’opera di C.S. Lowry, un artista che nessuno dei due conosceva. Pronunciò queste parole con un leggero disappunto, sorridendo anche se con una punta di delusione, quando entrambi non potemmo fare a meno di ravvisare le somiglianze di colori e di stile tra il suo lavoro e quello di Lowry, soprattutto in relazione ad alcuni dei loro paesaggi. È vero, niente si crea ex novo. Ma il miracolo della creazione, almeno per quanto riguarda la Stivaletta, secondo me si articola nelle infusioni, negli influssi, e nelle evocazioni di mondi che lei , pur non conoscendo di persona, in qualche modo riesce, inconsapevolmente, a portare alla luce. Ancora una volta, con discrezione, senza averne cognizione. Tutto ciò attraverso un processo di scoperta e di auto-rivelazione – rivelazione sia di sé stessa che a sé stessa – alimentato, posso dire, da presenze “altre” che, come rarefatti spiriti o demoni, si infiltrano misteriosamente nella sua mente e nel suo processo creativo.

Guardate, ad esempio, i due dipinti ambedue intitolati La festa. Lì c’è Van Eyck, i suoi Arnolfini incarnati, in modo perturbante, dalle coppie davanti a noi. Osservate il quadro Figura di ragazzo, oppure quello intitolato Lo sbarco, e percepite un mondo, quello dell’Olanda del XV secolo, che in qualche modo diventa attuale. Facciamo un salto in avanti nel tempo, ed entriamo nel mondo de La madre della sposa: non siamo forse – ma senza lo sfavillìo – negli spasimi smorzati ma ravvivati, e per niente riprodotti in modo dozzinale, della sensibilità di Klimt? La musicalità e l’ariosità di un Paul Klee, le vibrazioni di colore dei suoi quadrati, triangoli e rettangoli, si disseminano attraverso l’opera di Simona; allo stesso modo alcuni dei suoi paesaggi, almeno agli occhi di questo osservatore, evocano visioni della precisione geometrica di Mondrian, la cui ricerca implacabile e ossessiva per l’assoluto è mitigata e ripensata dall’autrice in geometrie che si rivelano in qualche modo “felici”, fallibili. Umane. E allo stesso tempo proprio quei paesaggi, spesso privi di figure umane, tormentano: la stessa Simona rifiuta in modo netto questa mia associazione, ma mi viene alla mente De Chirico quando perlustro alcuni dei suoi spazi disabitati più densi. Spazi, mondi, tenuti insieme da fili che si estendono nell’aria, dove sfere o palloni si confondono con periscopi a molla, dove si insinua una sorta di paranoia. In altri lavori, più recenti (Carillon, Dialogo, Casa Mobile, i due paesaggi Paesaggio in grigio e Paesaggio in rosso), un grado di alienazione meccanizzata occupa lo spazio scenico (sebbene non senza un eccentrico impulso trascendente), che rinnova e aggiorna la tradizione Futurista italiana mentre richiama, forse con ironia, oppure, chissà, con nostalgia, Charlot e il suo Tempi moderni. Ma poi ancora, questi paesaggi rossi e grigi di Stivaletta sono un contrappunto ad altri in cui la giocosità di un Lowry, o del suo contemporaneo britannico Alfred Wallis (sto pensando al suo Case di St.Ives, Cornovaglia), si reincarnano, in una sottile ma nondimeno esultante celebrazione del colore e della forma. E, infine, della vita.
Inquietudine familiare. Conosciuto-non-pensato. Felicità fallibile. Se nulla mai si crea ex novo, ci si potrebbe anche chiedere: dov’è allora l’originalità di Stivaletta? Nel suo libro Il Mistero delle Cose Bollas scrive: «Quando il pittore dipinge, o il musicista compone, o lo scrittore scrive, essi trasferiscono la realtà psichica in un altro regno. Essi transustanziano quella realtà, poiché l’oggetto non esprime più semplicemente sé stesso, ma a quella realtà conferisce un’altra forma… Il termine oggetto transustanziale mi consente di pensare all’integrità intrinseca della forma in cui uno sposta la propria sensibilità al fine di creare: nel pensiero musicale, nel pensiero scritto, nel pensiero pittorico». Il “pensiero pittorico” di Stivaletta, ovvero il procedimento attraverso cui la sua particolare sensibilità è trasposta in forme idiomatiche e integrali, mi fa venire in mente un commento di Igor Stravinsky (citato da Bollas) che scrive di come «si prefigura nell’atto creativo una comprensione intuitiva di un’entità sconosciuta già posseduta ma non ancora intelligibile, un’entità che non assumerà una forma definita se non tramite l’azione di una tecnica costantemente vigile». Per tutte le “presenze” che questo critico vede o immagina abitare l’opera di Stivaletta, i quadri – o le intelligibili entità – in questa mostra sono inequivocabilmente suoi, generati proprio da quella padronanza, e da quella specifica vigilanza tecnica, di cui parla Stravinsky. Una “medium”, in un certo senso, per la miriade di influenze interiorizzate e metabolizzate nel corso di decenni, Simona Stivaletta riesce a fare proprie le tradizioni passate proprio nella misura in cui ad esse rende onore, inconsciamente. Ma tale padronanza del passato – in accordo con la possibilità essenziale di dispossessarsene – è ciò che le permette, paradossalmente, di mediare il futuro. Attraverso un idioma creativo tutto suo. E lei media, e davvero ricrea il futuro, come fa ogni autentico artista, battendo un territorio che per forza di cose è familiare, ma va sempre ricalpestato di nuovo. Ripensato. Rivisitato. O, per dirla con Bollas, per sempre, ma in modo comunque originale, transustanziato.

Traduzione di Marica Macchiagodena